Fan come anestesia: l'illusione delle connessioni nell'era della conferma
- Spazio Eclettico
- 24 lug
- Tempo di lettura: 6 min

In questo momento storico non cerchiamo amore, amicizia, non cerchiamo nemmeno il vecchio e caro sesso disfunzionale con momenti di crisi post orgasmo. Per alcune persone anch'esso risulta essere troppo complicato.
Insomma i legami autentici sono passati di moda... Ora vogliamo i fan.
E in questa piccola disamina sociale in cui ci stiamo addentrando, dal retrogusto amaro ma tremendamente vero, ci viene incontro il famoso pensatore Byung - Chul Han con il saggio La società della trasparenza (2012). Anche lui, come Bauman, aveva previsto tutto fin troppo lucidamente. Ma forse non aveva previsto che sarebbe diventato un fenomeno di massa.
Ora cosa vuole la maggior parte della gente? Essere guardata (guardata, non vista) da un piccolo cerchio ristretto di persone come se fosse una bellissima pubblicità: confortevole, esteticamente perfetta, che trasmette solo good vibes.
Gente che non ci interroga, che non ci chiede chi siamo davvero, persone che si accontentano di ricevere il minimo sindacale in cambio di piccole attenzioni sparse qua e la come briciole di pane.
Solo applausi. Solo approvazione. Solo follow.
Nessuna messa in discussione. Troppo sbatti.
Ma perché ci stiamo riducendo a questo? Perché intere generazioni si rifugiano in relazioni a senso unico, asimmetriche, dove uno brilla e l'altro ammira passivamente?
Dove non c'è un reale incontro ma solamente uno specchio che riflette ciò che vogliamo confermare di noi stessi ? Cosa accadrebbe se ci confrontassimo con qualcuno che ci rimanda, con sensibilità, le nostri parti che non ci piacciono più di tanto ?
Spoiler: non è leggerezza, è paura
Il bisogno di avere fan al posto di relazioni autentiche non è libertà, è una risposta narcisistica alla paura. Ma paura di cosa?
• Paura di essere conosciuti davvero per ciò che si è, con il rischio di non piacere.
• Paura di deludere le aspettative o l'idea che una determinata persona si è fatta di noi.
• Paura di dover donare una piccola parte di se stessi all'altro. Contraccambiare. Si, c'è una forte base egoistica.
• Paura che qualcuno veda le fragilità, le debolezze, i traumi, i difetti dietro l'immagine che ci siamo costruiti. Così perfetta. Così da brava personcina per bene.
Allora meglio la distanza. Meglio il filtro che fa da muro sociale. Meglio il like, la visualizzazione alla storia rispetto a una presenza concreta che non ha paura di esserci, di denudarsi, di mostrare le proprie ferite.
Han scrive:
"Nella società della trasparenza, ogni distanza viene abolita. Ma l’intimità non è assenza di distanza. L’intimità è prossimità con tensione."
In altre parole: ci illudiamo di essere connessi perché tutti ci vedono. Ma non ci vede nessuno. Perché ci mostriamo solo in quella zona morta e patinata dove nulla può ferirci e toccarci. Insomma, mostriamo la nostra parte più performante, smart, cool. Ma mai il retroscena. Non i nostri scheletri nell'armadio.
Perché proprio fan? Perché non amici, partner, persone?
Perché il fan non ti chiede nulla. Il fan non si aspetta reciprocità. Il fan ti desidera nella tua versione migliore e poi si ritira. Ti idealizza perché ha bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi.
È un modello perfetto per chi vuole:
l’apparenza della connessione senza mettersi realmente in gioco nel rapporto
il piacere di ricevere attenzione senza dover dare nulla in cambio
la sicurezza della superiorità fittizia senza mai rischiare un confronto alla pari
Il fan è uno spettatore. E noi vogliamo platee, non legami. Vogliamo essere idolatrati, non visti anche nelle nostre crepe.
Come scrive Han:
"L'altro oggi non è più un tu, ma un oggetto di consumo."
E quindi:
meglio "amici" che ti adorano per quello che rappresenti nella loro psiche, non per chi sei veramente
meglio flirt che non pretendono chiarimenti dato che hanno l'autostima talmente bassa da baciare la strada su cui cammini
meglio relazioni squilibrate, dove l’altro ha sempre meno potere di te. Perché il potere ci dà controllo. E il controllo ci permette di non soffrire. Almeno in apparenza.
Perché così puoi raccontarti di essere amato, senza mai rischiare di esserlo davvero. Perché essere amato presuppone il fatto che tu ti renda vulnerabile. Non puoi essere amato in modo autentico se non ti mostri per ciò che sei realmente. Se non ti apri e non ti fai conoscere verrà amato soltanto ciò che hanno proiettato su di te. E non c'è solitudine peggiore.
La cultura che ci ha portati qui
Non siamo nati così. Ci siamo arrivati. A piccoli passi.
• Con l’idea che vulnerabilità è sinonimo di debolezza.
• Con il mito dell’iper - indipendenza emotiva.
• Con la narrazione tossica del “se sei abbastanza interessante, verranno loro”.
• Con il pensiero moderno che l'involucro conta più del proprio mondo interiore. Come se avere un bel nasino fosse un lascia passare che apre ogni porta. Spoiler, spesso lo è.
Abbiamo confuso il mostrarsi con il donarsi. Abbiamo confuso il piacere di un attimo con il senso di una presenza.
Abbiamo confuso l’ammirazione con l’amore.
E ora ci ritroviamo a cercare nelle storie da 15 secondi quella dose quotidiana di validazione che un abbraccio vero, silenzioso, irregolare, ci darebbe molto meglio.
Ma per quello ci vuole coraggio. E oggi il coraggio è scomodo. Meglio rimanere in una zona neutra, altrimenti se dovessimo esporci sai quanti fan se ne andrebbero?!?
Ma cosa ci stiamo perdendo?
Eh sì, cari lettori, perché tutto ha un prezzo, anche se non nell' immediato.
Bello avere fan che non chiedono nulla in cambio e nel frattempo ci boostano l'ego.
Ma,ahimè,ci sono delle conseguenze in questo modo di esistere e stare al mondo.
Ecco cosa lentamente e senza accorgercene perdiamo, giorno dopo giorno, fino a avere l'anima completamente disidratata:
Lo specchio crudo dell’intimità, quello che ti fa sentire nudo ma vivo. Accolto. Voluto. Presente.
La crescita, che nasce solo quando qualcuno ti dice: "così non va".
L’incontro reale, fatto di imbarazzi, silenzi, disagio. Balbettii. Figure di merda.
La profondità, che richiede tempo, presenza, esposizione.
La bellezza dell’imperfezione condivisa, che non farà mai tendenza ma ci salva. Ci fa ridere fino a piangere. A volte ci fa incazzare. Ma ci salva la vita, davvero.
Ma soprattutto ci perdiamo noi stessi.
Perché se sei sempre in vetrina, non sai più dove finisce l’immagine e inizia il tuo vero Io.
Alla fine non sai neanche chi sei tu veramente.
La tragedia? Non sembriamo nemmeno tristi
Anzi, sembriamo felici. Leggeri. Ironici. Smart. Postiamo tramonti e caption empatiche. Siamo sempre "in giro". A fare festa. A bere per simulare una connessione che il giorno dopo, in hangover, avremo già dimenticato.
Ma dentro, dentro...
Dentro c'è una paura muta. Una voce che non ascoltiamo mai. Quella che dice:
"E se qualcuno vedesse tutto il resto? E se qualcuno non applaudisse?"
Ed è qui che si rivela il vero problema: non vogliamo amore. Vogliamo conferma.
E la conferma non ama. Non consola. Non resta. Ti applaude per ciò che tu, volente o nolente, dai. Un ideale ? Una presenza comoda? Chi lo sa.
Ma dopo gli applausi arriva sempre un silenzio pesantissimo.
Conseguenze? Tante. E nessuna carina
Relazioni sempre più inconsistenti, vuote mercificate, di comodo. Appunto, l'altro da persona con il proprio universo personale diventa oggetto di consumo da cui trarne un beneficio narcisistico.
Incapacità cronica di comunicare davvero. E quindi maggiore solitudine, senso di alienazione, depressione.
Esplosioni emotive dopo settimane di silenzi passivo-aggressivi. Perché stiamo disimparando l'arte della comunicazione.
Infatuazioni tossiche per chiunque ci dia due attenzioni e mezzo. Alzare l'asticella. Ma non estetica. Bisogna cercare persone emotivamente allo stesso livello.
Crisi esistenziali in diretta su Instagram, con filtri rosa e playlist chill. Dove replichiamo l'ennesimo trend cringe per una manciata di visualizzazioni.
E nel frattempo, chi vuole davvero qualcosa di autentico viene visto come pesante, problematico, difficile. Quando invece sta solo cercando di non sparire in questa giungla relazionale. Sta cercando qualcuno a cui voler bene davvero.
La società della trasparenza non tollera l’altro come enigma
E allora?
Allora non ci resta che chiederci una cosa.
La domanda è semplice. Tagliente. Brutale ma necessaria:
Quando è stata l’ultima volta che hai permesso a qualcuno di vederti davvero? Non guardarti. VEDERTI.
La cosa più dolorosa è perdere sé stessi amando troppo un’immagine di sé creata per piacere agli altri. Søren Kierkegaard
E poi, hai mai conosciuto persone che volevano circondarsi solo di spettatori acritici? Oppure tu stesso/a ti circondi di persone che ti ammirano senza conoscerti realmente ?
Come ti fa sentire essere ammirato/a?
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